Giovanni Pascoli è una delle colonne fondanti del decadentismo (insieme a D’Annunzio). è il primo a staccarsi dall’aulicità, della tradizione poetica formale. la sua poesia è carica di un senso di morte e di angoscia tipicamente decadente.
Segue un percorso di formazione classico. La sua poetica è legata all’ esperienza biografica: il padre viene ucciso e l’omicidio rimane impunito; questo è un evento traumatico per Pascoli. La morte è un elemento onnipresente, poiché gran parte della sua famiglia muore.
La poesia diventa quindi uno strumento per ricostruire quello che non c’è più.
Il suo pensiero e la sua poetica sono l’unione tra crisi epocale e crisi personale, la prima dovuta alla crisi del positivismo e alla crisi dell’intellettuale, la seconda all’impatto di eventi biografici ( come la morte dei parenti e l’esperienza del carcere).
Il ruolo del poeta
Nel 1897 pubblica un articolo: “Il Fanciullino”, che può essere considerato un manifesto della sua poetica. All’interno di esse riprende il mito platonico del Fedone secondo cui ci sono due fanciulli dentro ognuno di noi, di cui uno interiore che non cresce e uno esteriore. Nel corso della crescita, quello esteriore ed interiore non ha voce; pochi riescono a sentire questo lato innocente( e si tratta dei poeti).
Il poeta dunque è colui che dà voce e ascolta il proprio fanciullino, vedere il mondo con una costante ingenuità. Non è attratto dai grandi eventi, ma dai particolari, dalle piccole cose, che sa cogliere.
Nasce quindi la poesia dello stupore (il poeta è come Adamo nell’Eden). Mentre la propensione alla meraviglia si perde nell’età adulta, con la poesia la si può recuperare, ricercandola in una dimensione irrazionale. È una poesia intuitiva, attraverso gli occhi di un soggetto che non conosce la violenza (ha quindi effetti di utilità morale e sociale).
La poesia risulta quindi l’unico strumento in grado di conoscere l’irrazionale (a differenza della scienza), mentre il poeta è “veggente”, perché è l’unico che sa guardare oltre le apparenze. Nasce quindi la passione per il mistero e per l’ignoto.
Per Pascoli ciò che non è moralmente buono non è poetico, poiché non fa parlare il fanciullino. Il poeta è un poeta vate, perché ispira sentimenti migliori, ma insegnando ad accettare la propria condizione esistenziale.
La poesia pascoliana ha un approccio a-logico, a-razionale, ricco di simboli, strumento di sperimentazione del linguaggio, in grado di riflettere l’approccio del fanciullino interiore.
Temi, motivi e simboli ricorrenti
I temi più importanti per Pascoli sono il nido (sia personale sia “universale”, ossia la Nazione), il connubio vita-morte e l’idea del cosmo. Dal punto di vista dello stile si possono distinguere:
- il fonosimbolismo: corrispondenze foniche e simboliche, il poeta evoca anche attraverso il suono e le figure di suono;
- la sperimentazione sintattica: periodi semplici, eliminazione di congiunzioni e verbi, sostantivazione di verbi e aggettivi;
- plurilinguismo: compresenza di termini appartenenti a diversi ambiti (ex. vocaboli scientifici) e anche a diverse lingue;
- stile impressionistico: impressioni, frammenti di immagini e dissoluzione dei nessi logici.
Myricae (1891 – 1903)
È la prima raccolta di poesie, dedicata al padre e composta da 156 poesie. Il titolo richiama le “umili tamerici” citate da Virgilio. È l’espressione della poesia delle “piccole cose”.
Le novità di questa raccolta sono:
- nuovi temi (vita agresate, tema della morte, etc.);
- nuove forme espressive (sperimentalismo, ricorso al simbolismo);
- nuova metrica e novità nel lessico.
“Lavandare”
In questo breve componimento il poeta coglie le immagini e i suoni della campagna in una giornata autunnale: un aratro abbandonato, il rumore dei panni sciacquati nell’acqua dalle lavandaie, il suono di una mesta cantilena popolare. In realtà, suoni, oggetti, immagini si caricano di profondi significati simbolici.
“Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo al maggese.”
- L’incipit è quasi un’immagine fotografica;
- Nella prima parte si ha quasi l’idea di un lavoro lasciato a metà.
- Presenza di fonosimbolismi.
- Giochi di rime e quasi-rime.
- Presenza di immagini cariche di mistero; è chiaro il senso di dolore per l’assenza.
- L’immagine dell’aratro chiude la poesia quasi ad anello
“Novembre”
Il soggetto principale è il paesaggio autunnale, che dal poeta viene analizzato e diviene spunto per una profonda riflessione sulla fragilità della vita. Il poeta descrive una limpida giornata di Novembre, caratterizzata da un’aria tanto nitida e luminosa che verrebbe spontaneo cercare con lo sguardo alberi in fiore e cercare di avvertire odori che sono in realtà caratteristici di tutt’altra stagione, della primavera, che sta all’autunno come la rinascita alla morte.
Ciò che Pascoli vuole realmente rappresentare con questa forte immagine naturale, è la breve illusione della felicità. Così come è svanita in poco tempo l’illusione di trovarsi ancora nella bella stagione, allo stesso modo la dolcezza dell’infanzia e della giovinezza dura poco e presto si rivela essere anch’essa un’illusione. Sulla vita dell’uomo incombono subito dopo tristezza, silenzio e morte.
“Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E’ l’estate
fredda, dei morti.”
- Si tratta del biancospino. Qui emerge l’influenza del positivismo, attraverso l’uso di un termine scientifico.
- Sinestesia che dà una sensazione esistenziale
- I puntini (lo scopo è lasciare sospesi).
- Avversativo: indica la fine dell’illusione.
- Sono stecchi, senza foglie, ma sono anche morte.
- Ipallage (sono le foglie ad essere fragili, non il cadere)
- Ossimoro, per indicare l’estate di San Martino (tra il 2 e l’11 novembre)
“X Agosto”
La lirica rievoca uno degli eventi più dolorosi e drammatici della vita di Pascoli, la morte violenta del padre. Il giorno di San Lorenzo, ovvero il 10 agosto Pascoli, il padre di Pascoli venne assassinato a colpi di fucile, per mano di ignoti, mentre tornava a casa sul suo calesse.
Il poeta vuole comunicare al lettore la sua tristezza per la mancanza del padre assassinato e la accentua mettendo a confronto una rondine abbattuta col cibo nel becco per i suoi rondinini e il padre che ritornava a casa portando due bambole alle figlie, in modo tale da sottolineare l’ingiustizia e il male che prevalgono sulla terra.
La leggenda popolare identifica le stelle cadenti, che proprio nella notte del 10 agosto hanno la loro massima manifestazione nel corso dell’anno, con le lacrime di San Lorenzo.
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
- Idea del cielo che piange
- Sacrificio che richiama quello di Cristo
- Fonosimbolismo
- L’intera poesia è impostata sul parallelismo tra l’uomo e le rondini
- Sono un simbolo dell’affetto genitoriale
- Un’altra immagine fotografica
- Come se fosse lontano, distaccato dagli affari degli uomini
- Sineddoche (in quanto il mondo è un insieme di atomi). Evidente il senso di angoscia.
“Tuono”
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla
- Ricorrenza di suoni che richiamano l’immagine evocata (ripetizione della lettera R). Carico di senso di morte, di angoscia, di quella paura che colpisce per lo più i bambini (idea del fanciullino).
- Parole onomatopeiche, dispose in una sotra di climax.
- Quando torna il silenzio si sente solo più il canto di una madre (che si immagina si sia svegliata per tranquillizzare il bambino).
“Lampo”
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che,largo,esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera
- Lo spazio dopo il primo verso è voluto: dà un senso di distacco. Per un istante si vede la differenza tra cielo e terra (il lampo illumina tutto).
- Climax; Ossimoro e Similitudine
“Temporale”
Un bubbolìo lontano. . .
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
- Subito una parola onomatopeica, nel finale un’analogia (casolare = ala di gabbiano), Le nuvole che si avvicinano danno un senso di angoscia. Ripetizione della parola “nero” (colore della morte) in pochi versi: decisamente simbolico.
I Canti di Castelvecchio (1903)
Analogamente a Myricae vi è una dedica al parente scomparso (la madre), temi campestri e familiari, la presenza della morte e della natura. Le differenze riguardano la lunghezza delle liriche, maggiore in questa seconda raccolta, in cui è presente anche una maggiore musicalità. Inoltre ci sono più richiami fonici e compare il ricordo nostalgico dell’infanzia.
“La mia sera”
Originariamente composta nel 1900. La poesia descrive la pace serale di un giorno tormentato da un selvaggio temporale; in questa situazione meteorologica il poeta vede strette connessioni con la sua vita familiare, funestata dal misterioso omicidio del padre quando egli era ancora fanciullo. La seconda parte è incentrata sulla simmetrica corrispondenza tra la vicenda del giorno, che si è quietamente concluso dopo la tempesta, e la vicenda biografica, con un’analisi sul significato dell’esistenza del Poeta, il quale giunto alla fase conclusiva della vita (“alla sera”) prova un senso di pace e serenità dovuto sia alla lontananza nel tempo dei ricordi sia alla vicinanza dell’idea della morte.
“Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
E’, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io … che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don … Don … E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra …
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era …
sentivo mia madre … poi nulla …
sul far della sera.”
“Il gelsomino notturno” (clicca qui per il testo)
Questa poesia costituisce uno degli esiti maggiori del simbolismo pascoliano.
Fu composta per le nozze dell’amico Raffaele Briganti e vi è raffigurato il tema dell’unione dei due sposi e del conseguente germogliare di una nuova vita. Nei versi è presente una metafora sessuale delicatissima. Il gelsomino notturno è fiore che si apre di notte e di giorno si chiude. Il simbolismo pascoliano si esprime nel rapporto tra il fiore e la donna, il fiore fecondato grazie alle farfalle notturne che ne trasportano il polline è metafora della donna resa madre nell’unione con il compagno.
L’elemento della narrazione è affidato a delle immagini e il poeta coglie il mistero che palpita nelle piccole cose della natura. Si accorge che la notte, quando tutto intorno è pace e silenzio, vi sono fiori che si aprono e farfalle che volano. Una vita inizia quando la vita consueta cessa. L’ora della vita notturna è anche un’ora di malinconia per il poeta che prova un senso di esclusione.
“Nebbia”
In questa poesia la nebbia, simbolo di chiusura dal mondo, è invocata (addirittura 5 volte) affinché nasconda una realtà lontana, come l’infanzia e la giovinezza, per lui memorie troppo dolorose. La natura, nella poesia di Pascoli, è una natura simbolica e qui, è la nebbia ad essere un simbolo. Con la nebbia il poeta non vede il passato, non vede quindi il dolore.
Egli implora la natura di fargli vedere solo quella parte di realtà che fa parte del suo presente, della sua quotidianità e del suo “nido familiare” (tema caro a Pascoli), che rappresenta il suo piccolo universo, fatto di limitati ma rassicuranti affetti : i pochi alberi nell’orto, la siepe, il muro e nell’ultima immagine il cane, simbolo di fedeltà ai valori familiari. Sono questi semplici elementi che lo proteggono dai rischi del mondo esterno.
“Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli,
d’aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valerïane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che danno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
Che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.”
- molti elementi vengono ripresi da altre poesie (ex. “lampi notturni”, “aeree frane”)
- l’approccio con la siepe è decisamente diverso da quello di Leopardi: Pascoli vuole che la realtà oltre la siepe rimanga nascosta.
- anche qui i termini botanici diventano poesia.
- personificazione delle campane (“stanche”, della morte probabilmente)
Pascoli imperialista?
Nel 1911, pubblica “La grande proletaria si è mossa” (clicca qui per il testo). Certamente avverte il dramma dell’emigrazione e ritiene che la Libia possa essere una terra da offrire agli stessi italiani, alla ricerca dell’armonia.
Si tratta inoltre di una trasposizione del nido familiare: è giusto aiutare i popoli più svantaggiati (idea tipica del colonialismo). La sua posizione politica si basa sull’umanitarismo sociale e il nazionalismo solidale.