LA CRISI DEL ’29
La Prima guerra mondiale fa da spartiacque nella storia delle relazioni economiche internazionali: nel primo dopoguerra mutarono le caratteristiche di fondo dello sviluppo capitalistico e le economie dei paesi industrializzati giunsero a una fase di stagnazione. L’apice di questa svolta avvenne con la crisi economica del 1929.
Le cause della crisi
La causa principale dietro alla crisi del ‘29 risiede nel fenomeno dell’inflazione: le spese belliche vennero finanziate ricorrendo alla messa in circolazione di moneta in misura superiore rispetto a quella consentita dalle riserve auree, che si tradusse nella tendenza all’aumento dei prezzi con varie conseguenze.
In politica interna il rincaro delle merci si tradusse nella perdita del potere d’acquisto da parte di stipendi e salari, alimentando forti tensioni sociali e spingendo sull’orlo della miseria le fasce più deboli. In politica internazionale il diverso andamento dell’inflazione nei vari paesi causò una svalutazione di alcune monete rispetto ad altre, che condusse a un’instabilità nei rapporti di cambio (principale ostacolo alla ripresa del commercio internazionale). Caso emblematico è quello della Germania che, in seguito alle pesanti clausole economiche imposte dai trattati di pace, subì il crollo della sua moneta (il marco) portando con sé altre monete dell’Europa orientale.
Verso la metà degli anni ‘20 l’economia mondiale sembrò superare l’emergenza del primo dopoguerra e avviarsi verso la normalità. Il governo americano accordò agli ex alleati condizioni più favorevoli per la restituzione dei prestiti di guerra e le principali banche di New York ricominciarono a concedere prestiti a imprese e governi: così Wall Street divenne il nuovo principale centro finanziario internazionale.
Nel frattempo, tutti i principali governi europei vararono programmi di stabilizzazione delle rispettive monete e politiche deflattive: riduzione della spesa pubblica, della moneta circolante e del credito bancario e compressioni bancarie e degli stipendi. Si sacrificarono investimenti e consumi reprimendo la domanda interna. Inoltre in questa fase si raggiunse l’apice della crisi dell’agricoltura, principale voce dell’economia per molti paesi, con un conseguente aumento della disoccupazione. La crescita economica della seconda metà degli anni ‘20 aumentò gli squilibri di reddito, a svantaggio delle classi popolari. Ciò causò il crollo della domanda di merci e, di conseguenza, la sovrapproduzione.
Il crollo di Wall Street
Il 24 ottobre 1929, durante il cosiddetto “giovedì nero”, crollò la borsa di Wall Street. Fu la conseguenza di una crisi di fiducia dopo un anno di forti rialzi, che provocò un’ondata di vendite al ribasso di titoli e che bruciò in un paio di settimane una ricchezza superiore a 30 milioni di dollari. Negli Stati Uniti il crollo di titoli azionari colpì in primo luogo le banche e chi aveva contratto debiti con loro e che si trovava a dover restituire quel denaro. Chi aveva depositato in banca corse a ritirare il denaro, accelerandone il fallimento.
La contrazione della produzione delle grandi industrie, a partire da quella automobilistica, trascinò con sé gli altri settori. Le imprese che negli anni ‘20 avevano ampliato le loro capacità produttive accumularono perdite, licenziarono, tagliarono i salari, bloccarono gli investimenti. Nel 1932 la disoccupazione superò il 27% e le conseguenze vennero aggravate dall’assenza di un’assicurazione sociale e di un’indennità per gli operai senza lavoro.
Le conseguenze della crisi
In Europa la prima a risentire della crisi fu la Germania, perché la sua economia dipendeva dai prestiti americani. Alla fine del ’29 i disoccupati erano quasi 2 milioni e nel ’32 superarono i 5 milioni, con un tasso di disoccupazione del 44%. Crisi americana e crollo tedesco provocarono una crisi dell’intero sistema economico ed ebbero ripercussioni anche su paesi come Francia e Gran Bretagna.
In pochissimo tempo l’economia mondiale sprofondò in una depressione da cui uscì solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La principale causa fu l’irrigidimento del nazionalismo economico, cioè l’avvio di politiche protettive delle singole economie con l’obiettivo di renderle autosufficienti. Tra il 1930 e il 1931 si assistette a una guerra economica generalizzata fatta di tasse e divieti di importazione ed esportazione che portò tutti gli Stati a ridurre i loro legami con l’estero. L’impiego di queste politiche protezionistiche significò proteggere e isolare l’economia nazionale dalla crisi mondiale, ma anche interrompere il precedente flusso di merci, esseri umani e capitali, intaccando il libero scambio.
Un’altra conseguenza della crisi fu il moltiplicarsi degli interventi degli Stati per risollevare le economie nazionali controllando gli scambi commerciali, dando impulso a lavori pubblici e introducendo forme di assistenza (sussidi, indennità, assicurazioni) per contrastare la disoccupazione.
Nacque in questi anni lo Stato imprenditore che si fa protagonista del controllo e della pianificazione dell’economia, o in prima persona o attraverso politiche e misure di gestione. Alcuni governi tentarono di rafforzare le strutture delle economie disciplinando i prezzi e regolando la produzione; in altri casi lo Stato si spinse fino all’acquisizione del controllo diretto di banche e imprese; più raramente si assistette alle nazionalizzazione di alcuni settori strategici (come l’industria pesante o la produzione militare).
Accanto allo Stato imprenditore si sviluppa, anche se non sempre, il welfare State: lo Stato sociale che attiva politiche a tutela dei lavoratori, che assicura previdenza e assistenza e che investe nella sanità e nell’istruzione.
Il “New Deal”
Il più vasto tentativo di regolamentazione statale venne avviato dall’amministrazione del presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt. Coolidge e Hoover, che lo avevano preceduto, avevano portato avanti un’ideologia liberista in politica interna e isolazionista in politica estera che non si era fermata neanche con la crisi del ’29.
In contrapposizione, Roosevelt varò un ambizioso programma di ripresa economica nazionale che diventerà noto con il New Deal. Un insieme di provvedimenti che andavano nel senso di un crescente intervento del governo federale nella sfera economica e che possiamo articolare in due fasi: l’adozione di politiche deflazionistiche e poi di politiche volte a favorire la ripresa dei consumi e della produzione. Alcuni esempi sono: l’introduzione di nuove tasse, la riduzione della circolazione monetaria e delle spese della pubblica amministrazione; l’approvazione di sussidi, i sostegni ai prezzi dei prodotti agricoli e gli incentivi per i contadini per ridurre la produzione; il finanziamento delle opere pubbliche e di programmi di recupero per aree economicamente depresse; la creazione di accordi tra imprese volti a limitare la concorrenza, a sostenere i prezzi e ad assicurare un salario minimo ai dipendenti.
In concreto i risultati economici del New Deal furono modesti: nel 1935 la produzione industriale non aveva ancora recuperato i livelli precedenti al ‘29 e le politiche non portarono effettivi benefici per i salari dei lavoratori o per il rilancio degli investimenti privati. Nonostante ciò il New Deal ebbe un profondo impatto culturale.
Sul piano della teoria economica la pratica dell’intervento regolativo e attivo dello Stato produsse il filone di pensiero che fa capo a Keynes e che si concretizzò nel saggio Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936) che ispirerà le politiche economiche dei governi occidentali nel secondo dopoguerra. Sul piano della politica mutarono le modalità comunicative: la strategia fu sperimentare moderne forme di comunicazione di massa per organizzare il consenso; radio, cinema e giornali sono usati con più consapevolezza a fini propagandistici e il loro coordinamento serve a creare un clima di fiducia.
VERSO LA SECONDA GUERRA MONDIALE
A differenza della prima, la Seconda guerra mondiale fu largamente prevista. Eventi come il riarmo nazista, l’aggressione giapponese alla Manciuria, quella italiana all’Etiopia e la guerra civile spagnola erano stati chiari segni di quel che sarebbe successo da lì a poco.
Venti di guerra
La crisi del ’29 segnò una svolta negativa in un quadro già instabile: tutte le maggiori potenze accentuarono la spinta protezionista e la produzione bellica (nonostante le numerose conferenze di disarmo organizzate dalla Società delle Nazioni, come quella svoltasi a Ginevra nel 1932). L’altro principale fattore di destabilizzazione nei rapporti internazionali fu l’ascesa di Hitler al potere nel 1933 e le conseguenti politiche di espansione sempre più aggressive che violavano i trattati di pace.
L’atteggiamento di Francia e Gran Bretagna verso la Germania nazista viene chiamato appeasement, ovvero la ricerca del compromesso a tutti costi pur di evitare lo scoppio della guerra, facendo spesso pesanti concessioni. Un’apertura spesso dettata anche da interessi politici: dirottare l’aggressività nazista contro i governi di sinistra di Spagna e Unione Sovietica.
L’Italia di Mussolini, invece, si pose prima in una posizione di mediazione per poi attuare un progressivo avvicinamento alla Germania nazista (prima nel 1936 con l’Asse Roma-Berlino e poi nel 1939 con la firma del Patto d’Acciaio). Questo soprattutto in seguito all’aggressione all’Etiopia, che, per gli abominevoli mezzi usati, suscitò la riprovazione internazionale e l’adozione di misure punitive (inefficaci). Gli Stati Uniti, dal canto loro, inizialmente si tennero isolati dal conflitto: nel 1935 era stato varato il Neutrality Act che aveva stabilito che non sarebbero state vendute armi ai paesi belligeranti. Ma progressivamente questa neutralità venne meno (nel 1939 l’embargo sugli armamenti fu abolito e Roosevelt si espresse a favore di aiuti ai paesi aggrediti dalla Germania) fino a quando, nel 1941, gli Stati Uniti entreranno in guerra in prima persona.
Tensione internazionale
Gli eventi principali che preannunciano gli inizi della Seconda guerra mondiale sono tre. Anzitutto la guerra civile spagnola (che vedremo nel dettaglio più avanti). Le altre due sono l’annessione dell’Austria (Anschluss) e della regione cecoslovacca dei Sudeti, avvenute tra il 1938 e il 1939.
A proposito dell’Anschluss: il cancelliere austriaco Schuschnigg dovette accettare l’ingresso nel suo governo del nazista Arthur Seyss-Inquart nel ruolo di ministro degli interni per poi lasciargli il suo posto dopo un ultimatum di Hitler, che entrò a Vienna il 13 marzo 1938. Subito dopo, Hitler si impegnò nella questione dei Sudeti, dove era attivo un movimento irredentista. Mussolini diede il suo consenso in cambio della conferma del possesso italiano dell’Alto Adige. In seguito alla resistenza cecoslovacca, il primo ministro inglese Chamberlain convocò la Conferenza di Monaco in cui lui, Hitler, Mussolini e il primo ministro francese Daladier si accordarono per concedere i Sudeti alla Germania.
Francia e Gran Bretagna iniziarono a opporre risposte più ferme solo dopo la minaccia di Hitler alla Polonia, garantendole aiuto militare in caso di invasione, e dopo la stipula del Patto d’Acciaio tra Germania e Italia, che impegnava le due nazioni a entrare in guerra l’una di fianco all’altra. L’ago della bilancia divenne l’Unione Sovietica di Stalin, creando un clima ricco di colloqui diplomatici.
Le potenze occidentali erano consapevoli che per attuare una strategia anti-hitleriana era necessario il coinvolgimento dell’Unione Sovietica: Stalin si mostrò inizialmente favorevole, ma infine rifiutò di fronte alla richiesta di lasciar attraversare la Polonia dalle truppe sovietiche per scontrarsi con i nazisti in caso di aggressione tedesca. Accettò invece il patto di non aggressione offertogli da Hitler (patto Molotov-Ribbentrop, firmato il 23 agosto 1939) che definiva anche le zone d’occupazione dei due Stati: la Germania avrebbe ottenuto la Polonia occidentale, l’URSS avrebbe ottenuto la Polonia orientale, parte degli Stati baltici e la Bessarabia. Su queste basi il 1° settembre 1939 venne invasa la Polonia: Gran Bretagna e Francia risposero dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale.
La guerra civile spagnola (1936-1939)
Un evento del primo dopoguerra che merita un trattamento più esteso è la guerra civile spagnola che fu, di fatto, la prova generale della Seconda guerra mondiale. Anche in questo caso le origini del conflitto stanno nella Prima guerra mondiale. La neutralità della Spagna durante la Grande guerra avevano consentito un’espansione economica per via di una maggiore domanda da parte dei paesi impegnati nel conflitto. Ciò nonostante la debolezza della monarchia costituzionale e del governo e il tessuto sociale arcaico avevano reso il paese politicamente debole. Nel 1921 si aprì una grave crisi, che si concluse due anni dopo con il colpo di Stato di Miguel Primo de Rivera il quale, con l’appoggio del sindacalista Caballero, lanciò un programma di riforme, pur istituendo una dittatura.
A causa della miseria delle masse rurali e delle aspirazioni democratiche, nel 1930 De Rivera rassegnò le dimissioni. Le elezioni del 1931 vennero vinte dai repubblicani e il re Alfonso XIII abbandonò il paese. Lo stesso anno venne promulgata una Costituzione repubblicana che istituì il suffragio universale e l’autonomia della Catalogna e delle province basche. Iniziò così la seconda repubblica spagnola con un governo provvisorio guidato dal repubblicano Azan͂a, ma composto anche dai leader del movimento sindacalista riformista.
Il governo attuò vari provvedimenti di separazione tra Stato e Chiesa a favore della libertà religiosa: venne elaborato il progetto per il divorzio, vennero chiuse le scuole cattoliche e vennero confiscati i beni ai gesuiti. Inoltre vennero attuate politiche in difesa dei piccoli contadini e una riforma agraria che però scontentò tutti, sia i grandi proprietari terrieri che gli stessi contadini. A tutto ciò si aggiunse un clima di polarizzazione tra forze istituzionali e opposizioni di stampo insurrezionalista che portò alla caduta del governo alle elezioni del ’33, vinte dalla CEDA (Confederazione Spagnola delle Destre Autonome), partito clerico-reazionario guidato da Robles. Dopo la vittoria delle destre iniziò il periodo noto come biennio negro, durante il quale venne smantellata l’opera di riforma dei governi precedenti.
Insurrezione e colpo di stato
Nel 1934 il leader della CEDA provocò una crisi del ministero e impose l’entrata nel governo di tre elementi della Confederazione. Il Partito Socialista interpretò l’avvenimento come un preludio a un colpo di Stato e diede il via a un’insurrezione, che venne repressa nel sangue dai reparti della Legione straniera di stanza in Marocco, guidati da Francisco Franco. Gli insuccessi delle insurrezioni spinsero le sinistre a unirsi in un Fronte popolare che raccoglieva repubblicani, socialisti, comunisti e parte degli anarchici. Il Fronte popolare vinse le elezioni del 1936, spingendo i cattolici ad abbandonare l’idea di una conquista pacifica del potere e dando forza alle destre, tra cui spicca il partito della Falange. Nel 1936 i militari di Franco, appoggiati da monarchici, cattolici ed estremisti, diedero il via a un colpo di Stato che sfociò in una guerra civile.
Le forze di destra impiegarono quasi tre anni a conquistare la Spagna, soprattutto grazie all’appoggio materiale e militare delle potenze nazi-fasciste. Al contrario le forze popolari si ritrovarono lasciate da sole dai paesi occidentali e frammentate al loro interno, con le diverse componenti incapaci di collaborare per una mancanza di valori e obiettivi comuni (se non il nemico). Le sorti della Spagna nella guerra civile furono segnate dall’atteggiamento delle potenze internazionali. Di fatto il conflitto fu uno scontro tra fascismo e antifascismo: l’Italia sostenne la ribellione franchista con 70.000 “volontari” e l’appoggio della Germania tenne paralizzate le potenze occidentali timorose di una guerra totale. Sull’altro fronte l’Unione Sovietica e le Brigate internazionali, composte da volontari antifascisti di tutti i paesi, aiutarono la repubblica spagnola. Nel gennaio 1939 i franchisti conquistano Barcellona e in marzo si concluse la guerra civile con la caduta di Madrid.