Oggi nel mondo l’italiano è parlato da circa 68 milioni di persone, di cui 64 milioni sono madrelingua e i restanti lo padroneggiano come seconda lingua. Lingua romanza più conservativa, l’italiano è erede e diretto discendente del latino, con cui intesse un rapporto di continuità di oltre millecinquecento anni. Lingua letteraria prima che lingua nazionale, l’italiano vanta un’illustre tradizione in ogni campo e ha ricevuto l’attenzione dei critici fin dalle sue origini.
Ma l’italiano come lo conosciamo oggi è stato una conquista difficile. Ha passato attraverso secoli di frammentazione politica, sociale e regionale e di rapporto subalterno rispetto ai dialetti, lingua madre degli italiani ancora nel ‘900. In questo articolo inizieremo ad affrontare questa complessa storia, partendo dalle origini fino all’800.
Che cos’è l’italiano?
L’italiano appartiene alla famiglia linguistica indoeuropea, le cui lingue hanno affinità tali da poter ipotizzare un antenato comune (l’indoeuropeo appunto), parlato nella steppa tra l’odierna Ucraina e Russia in epoca protostorica. La famiglia indoeuropea in Europa è attestata da tre gruppi linguistici principali: romanzo, germanico e slavo.
Le lingue romanze (anche dette neolatine) continuano il latino parlato anticamente a Roma: italiano, francese, spagnolo, provenzale e portoghese sono solo alcuni esempi. Oggi l’italiano è lingua ufficiale della Repubblica italiana ed è parlato principalmente sulla nostra penisola, ma aree di italofoni sono presenti anche in Slovenia, Croazia, nel Nizzardo e nelle comunità di emigrati italiani in giro per il mondo. Nello stesso territorio italiano, del resto, sono presenti minoranze linguistiche, i cosiddetti “gruppi alloglotti”: provenzale (Piemonte), ladino e tedesco (Trentino-Alto Adige), grico (Calabria), albanese (Italia meridionale), per fare qualche esempio.
Lingua e dialetti in Italia
In effetti, nel quadro linguistico europeo l’Italia detiene un primato eccezionale e antichissimo: è la nazione europea più differenziata per varietà linguistica. La ragione? Per secoli l’italiano è stato esclusivamente un idioma letterario, soppiantato nella quotidianità dai dialetti regionali: questa situazione, attualissima ancora in pieno ‘900, ha portato al perdurare longevo dei dialetti e delle cosiddette “varietà regionali dell’italiano”, rendendo la nostra penisola un vero e proprio mosaico linguistico.
Quindi che differenza c’è tra lingua e dialetto? In generale, possiamo dire che la lingua è un idioma che, per cause storiche, sociali o culturali, ha raggiunto uno status superiore nell’uso e nella coscienza degli utenti, è diffusa su un ampio territorio ed è simbolo di identità nazionale. Il dialetto, per contro, è attestato in un’area più ristretta e associato all’identità locale. Per dirla come il linguista Max Weinrich, la lingua è “un dialetto con l’esercito e la marina”.
I linguisti hanno diviso la penisola italiana in tre aree dialettali, separate da due linee di confini: la linea La Spezia-Rimini, che divide dialetti settentrionali e centrali, e la linea Roma-Ancona, che separa dialetti centrali e meridionali. Molti dei fenomeni fonetici, morfologici, lessicali e sintattici dialettali seguono queste direttrici. Al di là dei veri e propri dialetti regionali, però, è facile rendersi conto che l’italiano non è parlato nello stesso modo sul territorio: si pensi a ciò che comunemente chiamiamo “accento” o ai cosiddetti “geosinonimi”, cioè termini diversi per indicare uno stesso oggetto (a Torino si dice gruccia, a Roma stampella e Milano appendino). La pronuncia, l’intonazione e le differenze sintattiche o lessicali sono le caratteristiche più evidenti di quelli che Tullio De Mauro definì gli “italiani regionali”, nati dall’incontro tra i dialetti e la lingua nazionale.
Come nasce l’italiano?
È noto che l’italiano deriva dal latino, ma quale latino? È facile dimenticarsi che anche il latino un tempo è stato una lingua viva e che, esattamente come l’italiano, è variato nello spazio e nel tempo: il latino di Cicerone e dei grandi autori non era certo quello parlato nelle taverne della Suburra, esattamente come la lingua latina parlata in Spagna non poteva essere identica a quella di Roma. L’italiano e le lingue romanze derivano dal latino volgare, ovvero il latino parlato, molto diverso da quello classico che ci è pervenuto attraverso la letteratura. La parola italiana testa, ad esempio, arriva dal latino volgare testa(m). Il suo valore originario era “vaso di terracotta”, che rendeva in maniera scherzosa il latino classico caput.
Ma quando nasce l’italiano? Se l’atto di nascita della lingua francese sono i Giuramenti di Strasburgo dell’842, stretti tra Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo (entrambi nipoti di Carlo Magno), nel caso dell’italiano la questione è più spinosa. Si contendono infatti il primato due celebri documenti: il Placito capuano, verbale notarile di una contesa giudiziaria del 960 del monastero di Montecassino, e il cosiddetto Indovinello veronese, redatto da un copista su un codice spagnolo dell’VIII d.C.
Agli albori della letteratura in volgare: Duecento e Trecento
Soltanto nel XIII secolo gli scrittori adottarono la lingua volgare in maniera sistematica e la formalizzarono attraverso la letteratura. Il merito spetta alla scuola siciliana, nata alla corte dell’imperatore Federico II di Svevia: i poeti siciliani, funzionari della corte, imitarono la poesia provenzale, servendosi però del volgare siciliano (e non della lingua d’oc). I loro componimenti furono trascritti da copisti toscani, che modificarono le forme siciliane originali: così ci sono giunti in veste “toscanizzata” – con l’eccezione di quelli copiati dal filologo cinquecentesco Giovanni Maria Barbieri. In generale, la poesia italiana del ‘200 ci è nota da tre grandi codici toscani: il Vaticano latino 3793, il Laurenziano Rediano 9 e il Banco Rari 217.
Il Trecento, segnato dai grandi nomi di Dante, Petrarca e Boccaccio, è il secolo in cui il volgare acquisisce piena legittimità come lingua letteraria e in cui si afferma il primato del toscano. La Commedia, con la sua straordinaria (e insuperata) varietà di toni e linguaggio, dimostra le illimitate potenzialità della nuova lingua, capace di elevarsi dalle profondità e dal basso realismo dell’Inferno alla sublimità della visione di Dio. Proprio l’ampio respiro del plurilinguismo dantesco, che spazia dai latinismi ai neologismi più ingegnosi, ha meritato a Dante il titolo di “padre della lingua italiana”.
Il titolo è ancora più adeguato dato che, secondo i calcoli del linguista Tullio De Mauro, quando Dante cominciò a scrivere il “poema sacro” il vocabolario fondamentale dell’italiano era già costituito al 60%: grazie alla conservazione, trasmissione e diffusione della sua opera, alla fine del XIV secolo era completo al 90%! Inoltre, con il De vulgari eloquentia Dante può essere considerato a tutti gli effetti il primo teorico del volgare della nostra storia!
Ben diverso l’atteggiamento di Petrarca, fondatore dell’Umanesimo latino, che destina il volgare a quelle nugae (“sciocchezze”) che diverranno il Canzoniere (originariamente chiamato Rerum volgarium fragmenta). Questa diventerà l’opera cardine della lirica italiana, ma Petrarca non avrebbe mai pensato di affidare ad essa la sua immagine di poeta. Al multilinguismo di Dante si contrappone l’attenta selettività di Petrarca, che esclude molte parole della Commedia inadatte al genere lirico. Di Petrarca ci rimane oggi un testimone eccezionale, il Codice degli Abbozzi (Vaticano Latino 3196), che conserva le postille autografe ai vari componimenti.
Infine, grande fu il contributo di Boccaccio alla stabilizzazione della prosa trecentesca: la cornice del Decameron, scritta in volgare toscano di livello medio-alto, rimarrà per secoli punto di riferimento per la prosa italiana. Interamente scritto dalla mano di Boccaccio è il Codice Hamilton 90, prezioso testimone oggi conservato a Berlino.
Il trionfo del volgare: Quattrocento e Cinquecento
Il Quattrocento è segnato dalle posizioni contrastanti degli umanisti più avversi all’uso del volgare, che non poteva vantare la grande tradizione del latino, e di figure più disponibili e fiduciose nelle potenzialità della nuova lingua. Tra i primi spiccano Petrarca, Coluccio Salutati e Giorgio Valla, a cui si contrappongono personalità di spicco come Leon Battista Alberti, autore della prima grammatica della lingua italiana e fondatore dell’Umanesimo volgare. La promozione della lingua toscana avvenne principalmente nella Firenze di Lorenzo il Magnifico: autore egli stesso di componimenti in volgare, si fa portatore di un intervento culturale e letterario a sostegno della produzione letteraria in toscano al fianco dell’umanista Cristoforo Landino e di Angelo Poliziano.
Altro fattore da tenere in conto è che il Quattrocento è anche il secolo dell’invenzione della stampa: capitale della stampa italiana sarà Venezia, che deterrà il primato per oltre duecento anni grazie alla tipografia di Aldo Manuzio. Sebbene i libri in volgare stampati rimangano una minoranza rispetto a quelli latini, la stampa sarà fondamentale nei secoli successivi per la diffusione delle opere e della lingua volgari.
Il trionfo della letteratura volgare si colloca nel Cinquecento, in corrispondenza della sua stabilizzazione normativa: è in questo secolo che troviamo le prime grammatiche e i primi lessici e, soprattutto, le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, opera fondamentale per la riflessione linguistica italiana (1525). Poeta, grammatico e cardinale, Pietro Bembo è il grande regolarizzatore della lingua letteraria italiana: cura per i tipografi di Aldo Manuzio le edizioni a stampa del Canzoniere e della Commedia (1501 e 1502), esperienza fondamentale per la stesura del suo trattato più celebre. Le Prose pongono come modelli rispettivamente della poesia e della prosa italiana il Canzoniere di Petrarca e la cornice del Decameron di Boccaccio.
La grandezza di Bembo sta nell’aver avanzato per la prima volta una proposta concreta: un modello di riferimento da imitare che rispondesse alle esigenze pratiche degli scrittori e, al contempo, tenesse conto del primato della letteratura. Una lingua letteraria, dunque. Questo aspetto suscitò le reazioni dei fiorentini, che respingevano le posizioni bembiane e sostenevano il primato della lingua viva di Firenze, la cui autorità di modello poteva affiancarsi a quella dei grandi scrittori.
Il Cinquecento è anche il secolo delle accademie, centri propulsori dei dibattiti del tempo e punti di riferimento per gli intellettuali di tutta Europa. Nasce a Firenze nel 1582 l’Accademia della Crusca, che sarà una grande protagonista del secolo successivo per questa storia. È guidata dal filologo Lionardo Salviati, antibembiano e autore della celebre “rassettatura” del Decameron (un’edizione “purificata” dei contenuti immorali e lascivi voluta dal papa Sisto V).
Seicento e Settecento: dall’Accademia della Crusca al Secolo dei Lumi
All’Accademia della Crusca spetta il merito eccezionale di aver realizzato il primo grande vocabolario italiano e il primo grande dizionario monolingue europeo. Associazione privata e finanziata in proprio, con la prima edizione del suo vocabolario nel 1612 l’Accademia restituì a Firenze il magistero della lingua. L’impostazione del vocabolario seguiva la lezione di Salviati: la scelta dei lemmi e degli esempi partiva dagli autori del Trecento, il secolo d’oro della lingua fiorentina. L’obiettivo era dimostrare il prestigio e la continuità tra la lingua toscana antica e quella viva.
Seguirono altre due edizioni, a cui collaborarono intellettuali di alto calibro, ma fin dal 1612 non mancarono le critiche verso l’operato dell’Accademia. Celebri sono le postille al Vocabolario della Crusca di Alessandro Tassoni, avverso alla “dittatura” linguistica fiorentina e scettico verso quelle forme obsolete e incomprensibili inserite dagli Accademici a scapito della lingua moderna. Ad esempio. sotto la voce Oppio (nel Vocabolario inserita come sinonimo di pioppo) il Tassoni scrive: “Pochi agricoltori devono esser nell’Accademia, se non sanno distinguere l’oppio dal pioppo”. Con la sua vera polemica e la sua sottile ironia, Tassoni attacca il conservatorismo fiorentino, anacronistico nel suo ossequio del Trecento, e propone una revisione dei principi lessicografici all’insegna della modernità.
L’insofferenza verso l’autoritarismo fiorentino e la pedanteria retorica della tradizione italiana continua nel Secolo dei Lumi, grazie all’opera di Melchiorre Cesarotti, Alessandro Verri e il redattori della rivista Il Caffè. Nel Settecento, infatti, domina in Europa la lingua francese, di cui si ammirano la semplicità, la logica e la chiarezza razionale, a danno di un italiano etichettato come “lingua delle passioni”.
L’Ottocento: Manzoni, padre della lingua italiana
Nell’Italia dell’Ottocento c’è una tale “distanza tra la lingua parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta”: così si legge in una lettera di Manzoni all’amico Claude Fauriel. L’italiano, lingua adatta alla “nobile” comunicazione scritta, era impiegato in letteratura e nelle occasioni ufficiali. Tuttavia risultava inadeguato ai rapporti quotidiani e familiari, per cui si preferiva il dialetto (o addirittura il francese). Sarà Manzoni stesso, con l’impresa letteraria e linguistica dei Promessi Sposi, a segnare una svolta nella questione della lingua. La parabola della gestazione del romanzo, dal Fermo e Lucia all’edizione “quarantana”, culmina con la scelta di impiegare il fiorentino dell’uso colto, una lingua viva purificata da latinismi, arcaismi e localismi: sarà il famoso soggiorno a Firenze che gli permetterà di “sciacquare i panni in Arno”.
Nel 1868 Manzoni viene incaricato di presiedere alla commissione voluta dal Ministro dell’Istruzione Emilio Broglio per studiare e diffondere la “buona lingua” in tutta la nazione. La questione della lingua si unisce così alla questione sociale nella volontà di diffondere una lingua comune e di organizzare la cultura del nuovo Regno d’Italia. In questa occasione, Manzoni scrive la celebre relazione intitolata Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, in cui propone una politica linguistica di diffusione capillare del fiorentino tramite la scuola e i vocabolari. In effetti, l’Ottocento è anche il secolo dei dizionari, in cui viene finalmente superata l’impostazione conservatrice del Vocabolario della Crusca. Tra questi spiccano il Dizionario di Niccolò Tommaseo, primo vero vocabolario storico italiano, che affianca voci moderne e passate, e il Giorgini-Broglio di ispirazione manzoniana, che accoglie solo lemmi del fiorentino vivo.
Il progetto di unificazione linguistica proposto da Manzoni e il successo dei Promessi Sposi, modello senza precedenti di prosa elegante e colloquiale al contempo e ispirato alla lingua dell’uso, fu determinante nella questione della lingua. Tuttavia, se nell’ambito della comunicazione scritta l’esempio di Manzoni aveva liberato la prosa della lingua nazionale dall’impaccio della retorica, nel parlato mancava completamente una lingua comune. Secondo i calcoli di De Mauro, al momento dell’Unità l’80% degli italiani era analfabeta e del restante 20% solo una minoranza istruita padroneggiava l’italiano: bisognerà attendere le riforme di fine Ottocento e gli eventi del secolo successivo per parlare di una vera e propria unificazione linguistica italiana.