Henri Bergson (1859 – 1941) è stato un pensatore parigino noto sia per la propria filosofia che per la propria vena letteraria. Tant’è che nel 1927 ha vinto il Premio Nobel per la letteratura “per le sue ricche e feconde idee e per la brillante abilità con cui ha saputo presentarle”.
Tale talento gli venne riconosciuto fin da giovane, con vari premi scolastici, sia letterari che scientifici. D’altronde i suoi lavori affrontano temi propri della scienza con l’approccio filosofico: il tempo, l’evoluzione e la psiche umana sono i tre soggetti principali del pensiero bergsoniano. Andiamo a scoprirli insieme.
La filosofia di Bergson: organicismo spirituale controcorrente
Gli ultimi anni del XIX secolo sono caratterizzati dalla dominanza del pensiero positivista, in pieno accordo con la rivoluzione industriale e il progresso scientifico dell’epoca. Lo scientismo positivista categorizza, quantifica e sottopone ogni aspetto del reale (fenomenico e non) all’oggettivazione scientifica: anche l’essere umano e la sua spiritualità diventano oggetto di analisi dell’intelligenza umana.
Tuttavia, alla pretesa scientifica di fissare l’intero esistente in concetti astratti e immobili, si oppongono alcuni pensatori, in particolare Henri Bergson. Sia per il fatto che fosse francese, sia per il suo contrapporsi al pensiero positivista dominante, spesso Bergson viene incluso nel gruppo di filosofi francesi etichettati come spiritualisti. Eppure egli fu un pensatore sui generis, tant’è che si distinse fortemente dagli spiritualisti nella sua prospettiva cosmica e organicista. Ogni aspetto della sua filosofia presenta una visione organica, quindi contraria all’intimismo dello spiritualismo francese, che andava a fare della realtà umana un’isola ontologica a sé stante.
Il tempo della durata reale
Il carattere organico e anti-scientista della filosofia bergsoniana è particolarmente evidente nelle due più celebri immagini che il filosofo stesso ha creato per introdurre l’argomento fondamentale del proprio pensiero: una corona di perle e un gomitolo come due immagini concrete del tempo.
La prima raffigura il tempo concettualizzato della scienza, quello spazializzato e quantificato, in cui ogni istante è seguito e preceduto da un altro, finito e diverso dagli altri. Tale temporalità è sicuramente utile nell’ambito della scienza, ma non è quella che effettivamente sperimenta l’essere umano: il tempo umano, quello della vita è infatti come un gomitolo. Ogni istante è unico e irripetibile, così come lo è l’insieme del tempo stesso che, una volta “srotolato”, non può più essere ricostruito allo stesso modo.
Per quanto tale metafora possa sembrare squisitamente letteraria – d’altronde Bergson è stato vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1927 – rende chiaramente la visione eraclitea del tempo come flusso continuo, ossia come durata in cui essere e divenire coincidono nell’atto del cambiamento. A carpire il tempo della vita vi è la coscienza. Infatti, mentre il tempo spazializzato si trova fuori dall’essere, il tempo della vita coincide con l’esperienza stessa che l’io ha del suo divenire: la durata reale è dunque coscienza di sé ed esperienza metafisica del mutamento del proprio io.
In tal senso si presenta una differenza fondamentale con il panta rei di Eraclito, perché nella durata reale bergsoniana il passato rimane ed entra a far parte del processo di trasformazione che il soggetto stesso sperimenta. Quindi la coscienza è tempo e il tempo è un’esperienza organica che l’io ha di se stesso e della propria durata.
La memoria pura
Tutto quello che l’io sperimenta, la durata reale, entra a far parte della memoria pura. La memoria pura bergsoniana conserva l’intero vissuto del soggetto, ma non è un mero contenitore quanto più la combinazione tra la selezione dell’esperienza percettiva e la presenza dell’io nell’attività percettiva stessa, in quanto agente che orienta il sentire stesso. Essendo congiunzione tra coscienza dell’io e materia, secondo Bergson la memoria è caratterizzata da dinamicità e divenire.
Tant’è vero che dalla memoria pura Bergson distingue il ricordo-immagine, ossia una scheggia della totalità delle esperienze passate che ritorna al presente con fini pragmatici. L’esempio più celebre del ricordo-immagine si può trovare ne Alla Ricerca del Tempo Perduto di Proust, dove l’assaggio della madeleine risveglia nel protagonista il ritorno di un’esperienza passata dal forte carico emotivo. In tal senso il passato irrompe nel presente e l’interiorità invade lo spazio esterno: anche qui Bergson vede un’unità dinamica tra la memoria dell’io e l’esperienza presente.
L’evoluzione creatrice
Cosa muove l’unità dinamica, cifra caratteristica della filosofia di Bergson? Qui emerge il concetto di forza creatrice e attiva, comune alla filosofia moderna anche se sotto diversi nomi (volontà, prana, volontà di potenza, eccetera): lo slancio vitale. Esso non ha una componente meccanicista né finalista, ma è pura energia che esplode in modi sempre diversi e nuovi, dando il via ad un processo evolutivo del reale che Bergson ha chiamato “evoluzione creatrice”.
Tuttavia, il movimento di questa è soggetto a rallentamenti o arresti, dovuti alle diverse forme in cui la vita si manifesta. Ritorna quindi la divisione aristotelica tra vita vegetativa, animale e umana, anche se Bergson non opera una discriminazione vera e propria, poiché ritiene queste tre forme come tre elementi tutti coincidenti con l’impulso iniziale. Non hanno uno slancio diverso per intensità o grado, ma solo per la natura della forma.
La filosofia di Bergson: epistemologia e morale
Vediamo ora altri concetti importanti nel pensiero di Bergson, afferenti a due grandi branche della riflessione filosofica: l’epistemologia e la morale. Stiamo parlando dei concetti di istinto, intelligenza, intuizione e creatività.
La triade gnoseologica
Le differenze tra i tre stadi evolutivi bergsoniani si ripetono in un’altra triade alquanto importante del pensiero del filosofo francese: istinto, intelligenze e intuizione. Tutte e tre sono parte della conoscenza, ma tra loro vi è una differenza di forma evidente.
- L’istinto è la conoscenza immediatamente applicata nell’utilizzo e costruzione di strumenti concreti; in esso rappresentazione e azione coincidono e le associazioni tra le due tendono a ripetersi.
- L’intelligenza invece è conoscenza “ragionata” e applicata nell’esplorazione del reale. È la base gnoseologica della scienza e pertanto ha un difetto: non coglie la profondità dell’essente, ma si ferma alla superficie per tradurre le informazioni in dati, etichette e simboli da sfruttare nella sua attività creatrice.
- La sintesi tra intelligenza e istinto è rappresentata secondo Bergson dall’intuizione. Essa è forma di conoscenza immediata e ragionata: coglie le informazioni senza doverle quantificare, entra in simpatia con il reale e arriva alla pura coincidenza con esso. L’intuizione va al di là del semplice istinto o dell’Homo Faber scientifico e unisce sul piano gnoseologico il mondo immediato dell’interiorità a quello creatore dell’esteriorità.
Creatività e intuizione per una morale
Bergson vede nell’intuizione uno strumento non solo gnoseologico, ma anche morale. Infatti grazie alla capacità di cogliere la profondità del reale, l’uomo può oltrepassare gli automatismi deterministici e trovare nel profondo del sé la libertà. Un io libero è una personalità agente capace di esprimere totalmente la propria profondità in termini creativi.
Per quanto tale discorso morale possa ricordare la filosofia fitchiana o l’oltreuomo nietzschano, bisogna sottolineare che Bergson crede nell’esistenza di unbene oggettivo che ha come orizzonte l’umanità intera. Tant’è vero che egli si riferisce alla propria morale con l’attributo “aperta”: il fine è l’essere umano, il contenuto è l’amore per l’essere umano e la caratteristica è l’innovazione creatrice. In tal senso egli si auspica di risolvere il problema delle società chiuse, fissate sull’intelligenza, la scienza e il dato superficiale e poter realizzare una società aperta e organica.