“Diritti di cui godono tutti i cittadini di uno Stato in quanto tali”, così recita la Treccani a proposito della definizione di diritti civili. Parlare di diritti civili è però più difficile e anche la definizione convenzionale si articola in modi alquanto complessi davanti alle diverse discussioni filosofiche e politiche sul tema. D’altronde veniamo da un periodo caldo a livello socio-politico, in cui i diritti civili sono stati i protagonisti principali dei programmi elettorali delle ultime elezioni, finendo per coinvolgere maggiormente anche il pubblico profano nei dibattiti quotidiani all’alba del 25 settembre.
Infatti mentre economia, amministrazione e politiche internazionali possono sembrare argomenti distanti e complessi, i diritti civili fanno parte della nostra quotidianità. La libertà di pensiero, di parola, di espressione, di stampa, di associazione e di riunione sono tutti diritti civili, che oggi diamo per scontato, ma per i quali un tempo l3 cittadin3 hanno lottato duramente. Nell’ottica occidentale privilegiata i suddetti si possono addirittura confondere con i diritti umani, ossia quei diritti inalienabili dell’uomo, che non dipendono dall’appartenenza ad uno Stato, ma che sussistono in virtù della semplice esistenza del singolo. Tuttavia per quanto i nostri diritti civili coincidano con i diritti umani, la stessa condizione non si ripete in tutti gli stati; inoltre potrebbero esserci alcuni diritti umani che il nostro Stato ancora non contempla tra i diritti civili.
Diritti civili a rischio: l’aborto?
Amnesty International afferma che “l’accesso all’aborto sicuro è una questione di diritti umani”. L’aborto o interruzione volontaria di gravidanza viene infatti considerato come un atto di controllo sul proprio corpo autodeterminate e per nulla dannoso nei confronti di terzi. L’accesso alle pratiche per l’interruzione di gravidanza deve però essere regolamentato da un sistema di diritti civili o potrebbe non essere garantito. In quest’ultimo caso le persone intenzionate ad interrompere la gravidanza potrebbero ricorrere a sistemi non sicuri, mettendo a rischio la propria salute o – in termini giuridici – la propria autonomia e integrità corporea.
Recenti eventi avvenuti negli Stati Uniti dimostrano come nessun diritto sia per sempre: la Corte Suprema ha infatti decretato che la Costituzione degli Stati Uniti d’America non protegge più il diritto all’aborto. In tal modo i singoli stati hanno il diritto di rendere l’aborto illegale ed è inutile aggiungere che alcuni hanno già avviato le pratiche a riguardo. A seguito del caso statunitense, l’Unione Europe ha iniziato a considerare l’inserimento del diritto all’aborto nella sua carta dei diritti fondamentali; l’intento è quello di evitare che i paesi europei seguano l’esempio degli USA.
In Italia la discussione risulta tuttavia più complessa. L’aborto infatti cessa di essere un reato penale nel 1978, con la legge 194: questa divide i nove mesi di gestazione in tre fasi, ciascuna sottoposta ad un regime giuridico diverso. Nella prima fase, ossia entro il novantesimo giorno dal concepimento, l’interruzione di gravidanza è ammessa con motivazione fisica o psichica da parte dell3 gestante ed è offerta come trattamento sanitario gratuito. Dopo il quarto mese l’aborto è permesso solo a se il nascituro è affetto da patologie che comporterebbero condizioni di difficoltà economica, fisica e psichica all3 gestante. Infine c’è il momento della nascita del feto, in cui il personale medico deve avere riguardo in primis della vita della donna, poi quella del nascituro.
A completare (e complicare) il quadro della legge 194 è il diritto all’obiezione di coscienza, ossia la possibilità del personale medico di rifiutarsi di praticare l’interruzione di gravidanza per propri motivi etico-morali. Questa aggiunta, per quanto possa sembrare una minuzia è quella che rende l’aborto in Italia una pratica difficoltosa, inaccessibile e costosa. Infatti in quasi tutte le regioni la percentuale di obiettori supera il 70%, il che costringe la persona gestante non solo a liste d’attesa interminabili, ma anche ad affrontare dinamiche sociali psicologicamente provanti, che portano all’insorgere di stress, ansia, sensi di colpa e, nei casi peggiori, stati d’animo depressivi. Il risultato di tale condizione fa sì che l3 gestante intenzionat3 ad interrompere la gravidanza opti spesso per il turismo medico, ossia decida di spostarsi lontano da casa per ottenere il servizio sanitario desiderato.
Le tre forme dell’eutanasia
Se il turismo medico per l’aborto si esaurisce all’interno dei confini italiani, quello per l’eutanasia si spinge chilometri oltre. L3 malat3 italian3 che ha intenzione di sfruttare tale servizio infatti è costrett3 a spostarsi, per lo più verso il nord Europa, essendo in Italia la situazione giuridica a riguardo sempre più complessa, articolata e burocratica.
L’eutanasia è d’altronde anche meno regolamentata in Europa rispetto all’aborto, per quanto come concetto abbia le proprie radici in tempi alquanto antichi. Tant’è vero che il termine eutanasia deriva dal greco antico, con il significato di “buona morte”, inteso come azione autodeterminate in cui il singolo, dinanzi alla prospettiva di una vita configurata come sopravvivenza, opta per la morte.
Le posizioni dinanzi a questo tema morale sono principalmente due, ossia pro-vita e quindi contro l’eutanasia o disponibilità della vita nel senso in cui la vita viene caratterizzata principalmente dall’autodeterminazione del singolo e pertanto la scelta del suicidio deve essere rispettata e assistita. Ovviamente tra le due posizioni opposte esiste una scala di grigi in cui si valutano le diverse condizioni del paziente e le diverse modalità di attuare il cosiddetto “suicidio assistito”.
In Italia ad esempio sono permesse due “forme” di eutanasia. Per quanto riguarda la prima, conosciuta come eutanasia passiva, si tratta della sospensione delle cure; l3 paziente in Italia è tutelato in tale scelta sia dall’articolo 32 che dall’articolo 13 della Costituzione. Inoltre con la sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale è possibile richiedere il suicidio medicalmente assistito – seconda forma di eutanasia – alla presenza di una patologia irreversibile che comporti gravi sofferenze fisiche o psichiche e sempre che venga accertata la piena capacità di intendere e di volere del richiedente.
La differenza tra i due suddetti con l’eutanasia attiva consiste nel mancato coinvolgimento del medico. Nel primo caso la morte avviene per corso “naturale”, come conseguenza indiretta della rinuncia del paziente. Nel secondo caso è il paziente ad autosomministrarsi direttamente il farmaco letale che gli viene procurato dal personale sanitario. L’eutanasia attiva vede invece l’azione diretta del medico nella somministrazione al paziente del farmaco letale. Questa piccola variazione apre un problema morale secolare: la mancata azione dell3 medic3 nelle prime due forme di eutanasia l3 rende meno responsabile della morte del paziente rispetto alla eutanasia attiva? E se la responsabilità è la stessa, quale è il senso di vietare la forma attiva?
L3 attivist3 per l’eutanasia legale, davanti al dibattito morale, tendono a riportare l’attenzione sulla volontà del paziente piuttosto che sulla responsabilità del medico. D’altronde tutte e tre le forme hanno al centro la volontà del malat3, ma questa spesso è difficile da accertare. Se infatti consideriamo la situazione in cui un paziente non è capace di intendere e di volere, sia in presenza di un testamento biologico, sia nell’assenza di questo, la scelta si complica e la responsabilità del medico aumenta. D’altronde, ritenendo la volontà del paziente discriminante, bisogna chiedersi se la volontà del paziente che ha scritto il testamento biologico sia la stessa del paziente immerso nella propria malattia e quale tra queste volontà sia da seguire.
Tale problematica non si pone in una posizione detta “indisponibilità della vita”, secondo la quale la vita è fatta di libertà personale, piena capacità cognitiva e di scelta: in uno stato vegetativo o in una profonda demenza senile il paziente vive un’esistenza priva di queste caratteristiche e pertanto la sua non è più vita. Seguendo l’etica della cura, i sostenitori di questa posizione ritengono che abbia una rilevanza fondamentale la scelta dei congiunti e delle persone designate come fiduciarie. Nel momento in cui vi è assenza di espressione della propria volontà, la relazione sociale acquisisce diritto di determinazione.
Diritti umani, ma non italiani: parliamo di LGBTQIA+
Uscendo dalla bioetica, nell’ambito dei diritti civili è impossibile non nominare i diritti della comunità lgbtqia+. A quasi un anno dall’affossamento del DDL Zan, in Italia siamo ancora privi di un disegno di legge che tuteli la sicurezza delle soggettività queer. Questa proposta era stata avanzata seguendo il modello di numerosi disegni di legge già presenti negli altri paesi europei, ma a seguito di un lungo rimbalzo tra camera dei deputati e camera del senato il progetto è stato affossato. L’Italia rimane così uno dei pochi paesi dell’Unione a non proteggere l3 membr3 della comunità lgbtqia+ dalle discriminazioni che ogni giorno subiscono non solo per strada, ma negli ambienti lavorativi, accademici e cittadini.
La tutela contro atti di discriminazione e crimini d’odio non è però l’unico diritto civile che la comunità richiede: l’accesso al sistema sanitario, il matrimonio, il rispetto della propria identità, il lavoro sono tutti diritti che normalmente diamo per scontato, ma che nell’ottica di una persona queer risultano incerti. Infatti, nonostante sia presente dal 2016 una legislazione che regolamenta le unioni civili, queste differiscono dal matrimonio egualitario nella creazione del nucleo familiare: il figlio nato in un’unione civile è considerato figlio del parente biologico e non del coniuge, inoltre non sono ammesse adozioni.
Oltre al matrimonio però vi è da considerare la condizione che le persone queer, in particolare le soggettività trans*, sono costrette a vivere nell’approcciarsi sia al sistema sanitario, sia al mondo accademico/lavorativo. Discriminazioni, ostracismi, esclusioni e mancanza di assistenza fanno parte della quotidianità nel momento in cui si vive in un paese che non riconosce né tutela la propria esistenza. In questo caso è esemplare come quelli che sono diritti umani, non siano automaticamente diritti civili all’interno di un preciso Stato. Nel caso specifico lo Stato è il nostro.
Diritti civili e come ottenerli
All’inizio abbiamo definito il diritto civile come diritto di un3 cittadin3 di uno specifico stato. Cosa succede però quando il soggetto cerca di diventar3 cittadin3 e quindi accedere ai diritti civili? È il caso del diritto alla cittadinanza, altro tema protagonista del recente dibattito pubblico. Il diritto della persona ad avere accesso ai diritti civili dello stato in cui vive è infatti poco scontato e regolamentato in modi profondamente diversi a seconda del paese preso in considerazione. Tuttavia non avere i diritti civili di un certo stato comporta gravi difficoltà per l’individuo, poiché tutti i diritti quali associazione, riunione, sanità, lavoro non sono più scontati, né garantiti, né tutelati.
Le principali modalità ad oggi presenti nel mondo per ottenimento della cittadinanza sono le seguenti:
- ius sanguinis: la cittadinanza è garantita a chi nasce da almeno un genitore cittadino;
- ius soli: si diventa cittadin3 nel momento in cui si nasce in un certo territorio, indipendentemente dalla nazionalità del genitore;
- ius scholae/ius culturae: si ottiene la cittadinanza a seguito del completamento di un ciclo di studi a tempo determinato – i’idea è che attraverso la scuola e l’educazione avvenga l’integrazione culturale dell’individuo.
In Italia è in vigore lo ius sanguinis. Nel momento in cui una persona volesse prendere la cittadinanza, al compimento dei diciotto anni deve dimostrare di essere idonea ad alcuni criteri, quali la residenza minima di tre anni, un titolo di studio preso in Italia e il livello B1 della lingua italiana. Il compimento di queste pratiche si articola per cavilli burocratici che spesso rallentano l’ottenimento della documentazione desiderata e talvolta lo ostacolano totalmente. Per tali ragioni la politica locale discute spesso del metodo di assegnazione della cittadinanza; d’altronde non si può portare avanti una lotta per i diritti civili, dimenticandosi di renderli effettivamente accessibili.